mercoledì 13 novembre 2013

EUGENIO CEFIS



Eugenio Cefis 


(Cividale del Friuli, 21 luglio 1921 – Lugano, 28 maggio 2004) 
All'età di quindici anni si iscrisse all'Accademia Militare di Modena, durante la Resistenza fu vice comandante della Divisione Valtoce con il soprannome «Alberto». Fu tra i fondatori della Repubblica dell'Ossola.
Mattei di fronte alla sede dell' ENI
In quegli anni conobbe Enrico Mattei, che aveva  la guerra ha avuto l'incarico di chiudere l'Agip, lo chiama a lavorare con se. L'Agip, come si sa, non viene chiusa e da essa nasce l'Eni, con Mattei presidente.
Nel 1962 Mattei muore in un misterioso incidente aereo, gli succede alla presidenza dell'Eni Marcello Boldrini
Nel 1963 venne insignito dell'onorificenza di Cavaliere di Gran Croce, massimo riconoscimento della Repubblica Italiana.
Nel 1967 Cefis diventa presidente dell'Eni.
Da quella posizione ha l'intuizione che dominerà poi il resto della sua vita, e che sarà all'origine sia della sua fortuna e della sua successiva sfortuna. Intravede che sta per arrivare l'ora della chimica.
Cefis trovò il modo di aiutare Cuccia, iniziando segretamente a comprare azioni della Montedison con i soldi dell'Eni e i dovuti appoggi politici a Roma. Cominciò così la sua scalata al gigante chimico, che si concluse nel 1971, quando Cefis abbandonò l'ENI e divenne presidente della stessa Montedison. Questa mossa sollevò molte polemiche: egli infatti aveva utilizzato il denaro dell'ENI (cioè denaro pubblico) per diventare presidente di una società privata.
Cefis progettò di fare della chimica un settore competitivo a livello internazionale sulla base di due considerazioni: a) le enormi potenzialità legate alla petrolchimica; b) la precisa convinzione dell'esistenza in Italia dello spazio per un solo grande operatore. Ma si rese ben presto conto che il governo, tramite le Partecipazioni statali, voleva entrare anche nella chimica e non gli avrebbe lasciato le mani libere.
Ma in Italia c'è già un protagonista forte nella chimica: si tratta della Montedison. E, intorno, ci sono altri: Rovelli con la Sir, Ursini con la Liquigas, ecc.. Cefis fa i suoi conti e decide che il modo più semplice e più veloce di diventare a sua volta un protagonista nella chimica è quello di scalare la Montedison. La faccenda è complicata perché la Montedison è privata e l'Eni è pubblica.
Ma Cefis non è uomo da fermarsi di fronte a questioni del genere. Insieme a Cuccia, allora padrone indiscusso di Mediobanca e gran protettore della Montedison, organizza la scalata alla Montedison, alla fine degli anni Sessanta. La faccenda solleva uno scandalo enorme, tanto per la sostanza quanto per i metodi usati. Ma Cefis la spunta, almeno in parte.
Già allora, infatti, sta al centro di quella che poi verrà chiamata la razza padrona. Un mix, cioè, di affari e di politica. Una sorta di rete in cui ci sono i politici che proteggono Cefis e che da lui sono protetti (e aiutati, con la forza del potere economico). Cefis, mentre punta alla chimica, non trascura di controllare e di condizionare l'informazione, come mantiene buoni rapporti con i servizi segreti. Nasce in quel periodo uno degli episodi più clamorosi (e pesanti) di inquinamento della politica e della vita pubblica in Italia.
Dopo la sua scalata alla Montedison infuria la lunghissima stagione delle guerre chimiche: tutti sono convinti che lì ci siano i soldi del futuro (e il potere) e tutti vogliono una fetta della chimica.
Di fatto, Cefis dalla poltrona di presidente dell'Eni non riesce a governare la Montedison. Oltre a tutti i problemi economici e politici c'è di mezzo anche un mostruoso conflitto di interessi. Il gotha dell'industria privata (Agnelli e Pirelli) protesta per l'assalto alla Montedison, roccaforte dell'industria privata. Alla fine si arriva a un compromesso per cui si stabilisce che la Montedison (metà pubblica e metà privata) sarà la linea di confine: da quel momento in avanti, dicono i privati, non saranno più tollerate invasioni di campo.
Ma le cose, tenute insieme da un po' di diplomazia e anche da maniere brusche, non funzionano. Nel 1973 Cefis getta la maschera e fa il suo passo più ardito: lascia l'Eni e passa alla testa della Montedison. Ovviamente, appena sbarcato nella nuova carica comincia a contestare la presenza dell'Eni, di cui non tollera più la presenza, nonostante lui stesso abbia fatto, con la scalata, dell'Eni il maggior azionista della Montedison.
A molti, allora, il passo di Cefis apparve inspiegabile. Invece era il trionfo della filosofia della razza padrona. Cefis lasciava l'Eni, che bene o male era sempre un ente pubblico (soggetto a controlli pubblici, ai ministeri e al parlamento), e si trasferiva in Montedison, società di diritto privato, con il progetto di diventare l'esclusivo padrone della chimica italiana, senza più padroni. Insomma, arrivato in alto grazie alla politica, alla fine volle sganciarsi dalla politica per diventare semmai padrone della politica.
Piano ambizioso e forse anche un po' cervellotico, ma tipico di Cefis e del suo entourage. A quei tempi erano tutti convinti che la chimica si sarebbe trasformata in una miniera d'oro zecchino. Ma non fu mai così. La Montedison, nonostante tagli e ritagli, aiuti e mille sostegni, non è mai riuscita a produrre soldi. Anzi, ne ha sempre persi in abbondanza. La fine di Cefis, e con lui della razza padrona, su istantanea, forse dieci secondi in tutto.
Cefis, si racconta, nel 1977 va da Cuccia in Mediobanca per sottoporre al suo protettore una questione non nuova: la società ha bisogno di soldi, bisogna fare un altro aumento di capitale. Cuccia, che fino a allora aveva aiutato generosamente la Montedison (da lui stesso inventata peraltro a metà degli anni Sessanta), ha intanto maturato la convinzione che la partita è persa e che lo stesso Cefis è un perdente. E quindi gli risponde semplicemente con un monosillabo: "No".
Cefis, ex ufficiale dell'Accademia di Modena, non è uno che si fa dire due volte le cose. Capisce che la partita è chiusa, la grande avventura è arrivata alla sua ultima pagina. Si dimette dalla Montedison, si ritira a Lugano, e per la finanza italiana è come se fosse morto allora. Nessuno sentirà mai più parlare di lui.
Dopo aver respinto una scalata alla Montedison condotta dalla "sua" ENI e da Nino Rovelli, appoggiati da Giulio Andreotti, decise che era il momento di attuare quella strategia che egli rivelerà alcuni anni più tardi in una delle sue rare interviste: "Non si può fare industria senza l'aiuto della politica e un giornale può servire da moneta di scambio".


Cefis instaurò così un braccio di ferro con Gianni Agnelli, che non aveva nessun tipo di feeling con Fanfani ed era padrone de La Stampa di Torino, oltre ad essere nella proprietà del Corriere della Sera. Nel 1974 lo scontro ebbe come teatro la presidenza di Confindustria. L'Avvocato fece il nome del repubblicano Bruno Visentini, Cefis replicò con quello di Ernesto Cianci. Dopo un gioco di veti incrociati, alla fine si arrivò a un compromesso: Agnelli presidente e Cefis vicepresidente.
Secondo alcune voci della cultura italiana, Cefis avrebbe avuto tuttavia un ruolo oscuro nella morte di Enrico Mattei. Giorgio Steimetz (alias Corrado Ragozzino) lo descrisse come un nemico che tramava nell'ombra per ottenere la presidenza dell'ENI e neutralizzare la politica fortemente indipendente di Mattei: è la tesi espressa nel volume intitolato Questo è Cefis. L'altra faccia dell'onorato presidente, Agenzia Milano Informazioni, Milano 1972. Il libro di Steimetz fu subito ritirato dal mercato e da tutte le biblioteche italiane, sparendo completamente dalla circolazione. In questo senso, Cefis avrebbe agito come rappresentante di poteri che volevano ricondurre la politica energetica italiana in orbita atlantica, con un comportamento coerente con i dettami delle multinazionali angloamericane del petrolio.
L'intesa riguardò anche i giornali: Cefis ebbe via libera per Il Messaggero (il quotidiano più venduto di Roma), Agnelli ottenne che La Gazzetta del Popolo non desse più fastidio alla Stampa (infatti verrà chiusa nel giro di pochi anni) e in cambio acconsentì che la Rizzoli acquistasse il Corriere. A metà degli anni settanta il suo potere era enorme.
Nel 1977 Cefis lasciò improvvisamente la scena pubblica per ritirarsi a vita privata in Svizzera e gestire il suo patrimonio, stimato allora in cento miliardi di lire.
Nel ' 77 però Cefis lasciando Foro Buonaparte spiazzò tutti e lo stesso Cuccia, che ne rimase fortemente contrariato. «Mi ha lasciato solo come un birillo tra le bocce», disse e proseguì «caro dottor Cefis, pensavo che lei facesse il golpe e invece se ne è andato». Ma di che tipo di golpe parlasse il grande vecchio della finanza italiana non è affatto chiaro. Un golpe militare in senso stretto o più probabilmente un rovesciamento dei rapporti tra industria pubblica e privata, una sorta di commissariamento dell' establishment?


Le indagini di P.P. Pasolini

Pier Paolo Pasolini si interessò al ruolo svolto da Cefis nella storia e nella politica italiana: ne fece uno dei due personaggi chiave, assieme a Mattei, di Petrolio, il romanzo-inchiesta (uscito postumo nel 1992) al quale stava lavorando poco prima della morte. Pasolini ipotizzò, basandosi su varie fonti, che Cefis alias Troya (l'alias romanzesco di Petrolio) avesse avuto un qualche ruolo nello stragismo italiano legato al petrolio e alle trame internazionali.
In quello stesso periodo, sul Corriere della Sera, Pasolini denunciò apertamente la logica perversa della democrazia mantenuta a suon di stragi, nel famosissimo articolo "Io so", poi confluito negli Scritti Corsari. Poco dopo fu assassinato, in circostanze misteriose, all'Idroscalo. Ora, proprio sulla "pista Mattei'', l'indagine di Palermo su De Mauro incrocia quella della Procura di Roma sull'uccisione di Pasolini, affidata al pm Francesco Minisci che, proprio nei giorni scorsi, avrebbe scoperto il Dna di un terzo uomo tra le baracche di Ostia, dove il poeta fu pestato a morte al termine di quella che fino a oggi è stata definita una "lite tra froci".
Secondo autori recenti e secondo alcune ipotesi giudiziarie suffragate da vari elementi, fu proprio per questa indagine che Pasolini fu ucciso: cfr. ad es. il volume di Gianni D'Elia, Il petrolio delle stragi, Effigie, Milano 2006.
La Procura di Palermo scava sulle ragioni della morte di Pier Paolo Pasolini e sulle ossessioni del poeta che aveva individuato nell'uccisione del presidente dell'Eni Enrico Mattei, l'origine delle stragi di Stato. E avvia l'indagine interrogando un testimone eccellente: il senatore Marcello Dell'Utri, condannato a 7 anni per mafia e testimone, per una decina di minuti, dell'esistenza del misterioso capitolo "Lampi su Eni", le pagine scomparse del romanzo Petrolio, nel quale Pasolini raccontò la natura criminogena del potere economico-finanziario in Italia.
"Non so chi fosse: quell'uomo mi ha avvicinato in mezzo a una gran folla e mi ha mostrato il dattiloscritto - ha detto Dell'Utri - ma io l'ho sottovalutato e non ho avuto nemmeno il tempo di leggerlo". Dell'Utri è stato sentito (dopo che in alcune interviste aveva sostenuto che "Lampi su Eni" poteva aprire scenari inquietanti sul caso Mattei) nell'ambito della nuova indagine che i pm di Palermo hanno aperto sull'uccisione di Mauro De Mauro, il giornalista de L'Ora scomparso nel 1970 con il metodo della "lupara bianca", dopo che il boss Totò Riina, unico imputato nel processo per quel delitto, è stato assolto nel giugno scorso.
E aveva rivelato ad alcuni amici e ai familiari di essere in possesso di uno scoop clamoroso su quella vicenda. Anche Pasolini, così come De Mauro, era convinto che Mattei fosse stato assassinato: lo avrebbe ricostruito proprio nel capitolo scomparso, "Lampi sull'Eni'', come risulta da un appunto successivo ritrovato dai critici che hanno messo insieme i vari segmenti di Petrolio, opera incompiuta e pubblicata solo nel 1992 da Einaudi.
Pasolini, sia pure utilizzando degli pseudonimi e dunque camuffando la denuncia dietro l'artifizio letterario, attribuì a Eugenio Cefis, in quel periodo presidente della Montedison (sospettato di essere il plenipotenziario degli interessi atlantici in Italia), la responsabilità della morte di Mattei e spiegò la fine del presidente Mattei come il prologo della "strategia della tensione", ovvero il ricorso alla strage per mantenere gli equilibri politici interni e internazionali.
Per quel massacro, avvenuto nella notte tra il 1 e il 2 novembre del 1975, è stato processato e condannato Pino Pelosi, ex ragazzo di borgata, all'epoca solo diciassettenne, quale unico responsabile del delitto. Ma i dubbi e gli interrogativi sulla presenza di altre persone e sulla natura "politica'' di quel delitto, non sono mai stati fugati.
Chi c'era, oltre a Pelosi e a Pasolini, quella sera, all'Idroscalo? Chi conserva, a più di 30 anni dal delitto, il capitolo "Lampi sull'Eni", e con quale scopo? Cosa aveva scoperto De Mauro della morte di Mattei? E cosa sa oggi Dell'Utri di quella denuncia in forma letteraria mai più ritrovata? Dalle novità emerse negli ultimi giorni dalle procure di Roma e di Palermo, ecco che elementi convergenti gettano un raggio di luce su due delitti mai risolti, iscrivendoli in un'unica trama sanguinosa e complessa, sullo sfondo di patti e ricatti che dalla Prima alla Seconda Repubblica attraversano la storia occulta del Paese.
L'uso illecito di apparati dello Stato a fini privati ed extraistituzionali raggiunge il massimo nel rapporto tra Cefis e i servizi segreti. Il presidente della Montedison assolda un vero e proprio servizio di informazioni con elementi appartenenti o appartenuti al SID, che preparano fascicoli e informative su uomini politici e imprenditori da utilizzare per manovre di ogni tipo. Il capo del SID del tempo, Miceli, era in ottimi rapporti con Cefis tanto da chiedergli, nel momento della sua incarcerazione, un contributo in denaro per alleviare le presunte cattive condizioni finanziarie. Ma l'asse principale con l'apparato del servizio segreto è stabilito con il generale Maletti, responsabile del servizio parallelo di intercettazioni e spionaggio realizzato per conto della Montedison con collegamenti anche con il comandante generale dei carabinieri, generale Enrico Mino.
Anche l'importanza del controllo della stampa al fine dell'esercizio del potere non sfugge a Cefis e al suo gruppo di »amici con in prima fila Gioacchino Albanese, Ugo Niutta e Umberto Ortolani.






Fondatore della loggia massonica P2?

In base a un appunto del Sismi rintracciato dal pm Vincenzo Calia nella sua inchiesta sulla morte di Mattei, la Loggia P2 sarebbe stata fondata in realtà da Cefis, che l'avrebbe diretta sino a quando fu presidente della Montedison; poi sarebbe subentrato il duo Umberto Ortolani-Licio Gelli.
Massimo Teodori: "Molto si è scritto della P2 e di Gelli ma la verità sulla loggia e sul suo impossessamento del potere nell'Italia d'oggi è stata tenuta nascosta. Contrariamente a quanto afferma la relazione Anselmi votata a maggioranza a conclusione dell'attività della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla P2, la Loggia non è stata un'organizzazione per delinquere esterna ai partiti ma interna alla classe dirigente. La posta in gioco per la P2 è stata il potere e il suo esercizio illegittimo e occulto con l'uso di ricatti, di rapine su larga scala, di attività eversive e di giganteschi imbrogli finanziari fino al ricorso alla eliminazione fisica."
Fenomeni simili a quello gelliano, ma non equivalenti, non sono però nuovi al »caso italiano . Basta ricordare quel che hanno rappresentato nel precedente ventennio Enrico Mattei e Michele Sindona, pur nella radicale diversità degli obiettivi perseguiti e degli strumenti adoperati. Anche Mattei, usando della posizione di capo dell'ENI, aveva costituito un suo sistema di potere che esercitava influenze e pressioni, stabiliva alleanze politiche, insomma svolgeva un ruolo di protagonista molto al di là della sfera naturale del grande imprenditore pubblico. Anche Sindona arrivò ad essere all'inizio degli anni '70 un grande protagonista, ma il suo regno era essenzialmente circoscritto alla dimensione finanziaria pur se attraverso di essa esercitò pressioni e stabilì stretti collegamenti con settori politici.
Tuttavia, il sistema di potere che prima della P2 è comparabile con il centro gelliano è quello organizzato e promosso da Eugenio Cefis, presidente dell'ENI nella seconda metà degli anni '60 e quindi alla testa della Montedison dal maggio 1971. A differenza di Gelli, Cefis usa la preminente posizione in campo economico e finanziario, delegatagli dai politici, per organizzare un centro di potere che si avvale in maniera sempre più aggressiva delle risorse del gruppo da lui gestito per annettere a sé uomini, gruppi e risorse nei diversi settori della vita nazionale.
Al culmine dell'espansione del suo potere, Cefis enuncia una sorta di proposta tecnocratico autoritaria, la cui ispirazione di fondo viene annunciata in un discorso non casualmente tenuto all'Accademia militare di Modena nel febbraio 1972.Il passaggio dal sistema Cefis al sistema Gelli non è tanto una questione di coincidenze di uomini, che pure si potrebbero indicare in abbondanza. Riguarda la funzione ormai permanente che le strutture volte all'organizzazione e gestione del potere esercitano nel sistema politico italiano. Entrambi i sistemi, quello cefisiano e quello gelliano, si possono insediare sopra e in vece del sistema politico grazie alla degenerazione istituzionale e democratica. Le lotte di potere nella DC disgregata avevano rappresentato il terreno propizio per Cefis. Dal canto suo Gelli, quando arriva al controllo dei servizi segreti, di buona parte della stampa e di un'importante porzione del sistema bancario e finanziario diviene allora arbitro influente anche nella politica e fra i politici.
Il sistema P2 si sviluppa nello stesso periodo in cui il sistema Cefis comincia a declinare come tale fino all'uscita di scena del suo organizzatore nel 1977. Sarebbe superficiale affermare che il nuovo sistema di potere prende piede perché il precedente tramonta oppure che la P2 eredita, in quanto tale, il sistema cefisiano. In un campo così complesso come quello dell'organizzazione del potere, nulla avviene automaticamente o per meccanica eredità. Certo è però che vi sono degli elementi di continuità tra il sistema cefisiano e quello gelliano e non pochi sono i punti di contatto fra le due fasi della vita politica italiana, nelle quali hanno avuto un peso rilevante dei raggruppamenti palesi occulti operanti nell'illegalità .
Emblematica è la vicenda Rizzoli »Corriere della Sera . E' Cefis che consente ai Rizzoli di comperare il quotidiano nel 1974 con la promessa di finanziamenti di molte decine di miliardi per il rilievo della quota e per la pubblicità. Ed è ancora Cefis che, non onorando nel 1976 gli impegni precedentemente assunti, costringe Rizzoli a ricorrere al credito di ambienti bancari piduisti. Anche per quel che riguarda i servizi segreti, le due vicende hanno singolari coincidenze e parallelismi. Cefis si serviva del SID di Maletti ed aveva stabilito una rete di rapporti e di alleanze che comprendeva il comandante generale dei carabinieri Mino e il capo della Guardia di Finanza Raffaele Giudice. Gli stessi personaggi si ritrovano insieme a Gelli che usa il SID prima, il SISMI e il SISDE di Santovito e Grassini poi, per commerciare in informazioni sugli affari nascosti del regime. Nell'orbita dell'uno e dell'altro si ritrovano personaggi militari e dei servizi segreti che pure all'interno dei loro apparati si combattevano aspramente.


Il 740 svizzero di Eugenio Cefis miliardo per miliardo

C’ eravamo dimenticati di lui. Del resto 16 anni di esilio hanno avuto il potere di far sparire dalle cronache il nome di Eugenio Cefis. Almeno fino a giovedi’ 22 aprile scorso, quando l’ ex presidente dell’ Eni e della Montedison e’ stato convocato a Palazzo di Giustizia a Milano. Ospite il magistrato Pierluigi Dell’ Osso che l’ ha interrogato per undici ore, ripercorrendo la storia dell’ ente petrolifero dal 1950 al 1971. Dobbiamo sincera gratitudine a quel giudice, ha commentato Alberto Statera sulla Stampa, perche’ l’ esilio di Cefis  l' esilio di Cefis "e' uno di quei misteri della nostra storia contemporanea che forse, rivisitati tre lustri dopo, possono finalmente trovare una loro autentica chiave di lettura". E cosi' tra i tanti punti interrogativi che il ritorno dell' uomo che ispiro' Razza padrona ha riproposto c' e' anche quello che ha appassionato due generazioni di cronisti finanziari: a quanto ammonta la sua ricchezza? Del resto allorche' decise di lasciare il Bel Paese si disse che Cefis avesse portato con se' un centinaio di miliardi, ma di piu' non si seppe. Stavolta pero' il cronista non si e' arreso ed e' riuscito a far luce almeno su una tessera di quel mistero. La "prova" e' riprodotta qui accanto ed e' la dichiarazione dei redditi 1992, presentata da Cefis congiuntamente alla moglie Marcella Righi nel Comune di residenza, Zurigo. Sia chiaro: tutti sanno che un uomo dell' abilita' finanziaria di Razza Padrona conosce a menadito l' abc dei paradisi fiscali, ma se e' vero che ogni lunga marcia comincia con un piccolo passo bisogna pure accettare che un' indagine possa cominciare con un certificato (ufficiale) dei redditi. Quanto hanno guadagnato i coniugi Cefis Righi nel ' 92? La rendita annuale, in tedesco reineinkommen, e' stata pari a 1.123.300 franchi svizzeri che tradotti in lirette fanno all' incirca 1,2 miliardi. Due terzi di questo reddito e' stato prodotto nel cantone di Zurigo (827 mila franchi) e un terzo nel resto della confederazione. Nel ' 91 le cose erano andate meno bene: la coppia Cefis Righi aveva incamerato solo 556 mila franchi svizzeri. Piu' interessante e' la consultazione della voce reinvermogen, che sta per patrimonio. L' ex presidente della Montedison denuncia (per il ' 92) 34,7 milioni di franchi, all' incirca 36 miliardi di lire. Fin qui la Svizzera. Ma un' altra consistente fetta di beni e' in Canada. Nel Paese dell' acero lavora il fratello Alberto che gestisce ingenti interessi immobiliari. Ingenti quanto? La risposta, quando si parla dei Cefis, e' sempre la stessa: nell' ordine delle centinaia di miliardi.




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